I GELSOMINI DI KABUL
L’emigrazione è storia che si ripete.
E anche oggi, come ieri, l’accoglienza dei migranti non di rado si scontra con la diffidenza e quell’intolleranza che sono figlie dell’ignoranza, della “non conoscenza”, cioè delle cause che molto frequentemente costringono maree umane ad una fuga disperata dal proprio Paese e dai propri affetti, per andare incontro ad un destino pieno di incognite. I conflitti interni, che seminano distruzione e morte in moltissimi territori, sono senz’altro tra le cause principali che acuiscono il fenomeno migratorio giustificandone l’esistenza e l’evoluzione. E, a tal proposito, il pensiero corre inevitabilmente all’Afghanistan delle ultime settimane: un paese frammentato e dilaniato, in balìa delle offensive dei Talebani e dell’Isis che non concedono tregua nemmeno durante il ramadan. Un territorio martoriato che con molta difficoltà deve contrastare attentati a cadenza quasi quotidiana e, purtroppo, contare moltissime vittime anche tra i civili. Questo ci aiuta a comprendere perché tanti, tantissimi giovani abbandonino la famiglia ed il proprio paese per mettersi in cammino, portando con sé lo stretto necessario ed un bagaglio di incertezze e di speranza, di paure e di sofferenza. Giovani e piccoli “fiori”, in cerca di un giardino in cui seminare e far crescere una vita nuova; un giardino in cui vedere rispettati i propri diritti e nel quale poter diventare grandi, coltivando sogni di pace lontano dal rumore della guerra. Piccoli “fiori”, come Zaher Rezai, la cui storia è stata ricostruita grazie ad un taccuino di poesie e disegni che il ragazzo portava con sé. Tra centinaia di storie simili, questa abbiamo scelto per ribadire che spesso la fuga non è uno “sfizio”per raggiungere chissà quale miraggio. Spesso, scappare può essere l’unico modo per tornare a VIVERE. E se il lieto fine fortunatamente accompagna un gran numero di “viaggi della speranza”, la storia di Zaher ci ricorda il prezzo - altissimo - che tante giovani vite pagano per rincorrere il proprio sogno.
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Nel 1998, il piccolo Zaher Rezai sopravvive ad una delle numerose stragi di civili che frequentemente si compiono in Aghanistan. Abbandonata Mazar-i Sharif , la città in cui è nato, si rifugia con la famiglia in Iran dove, ancora bambino, viene impiegato come saldatore. Zaher è costretto a lavorare come un adulto e prende l’abitudine di appuntare di continuo schizzi e misure su un taccuino. Pur essendogli negato il diritto allo studio, la scrittura molto incerta non gli impedisce di segnare su quei fogli, oltre ai disegni e all’elenco dei soldi messi da parte, anche antichi versi scritti in arabo. L’impossibilità di condurre in Iran un’esistenza “normale” e la mancanza di prospettive per il futuro lo spingono, ormai ragazzo, ad intraprendere un viaggio della speranza verso l’Italia, come parecchi suoi connazionali, portatori di diritti fondamentali, in fuga dalla violazione di questi stessi diritti, nel disperato tentativo di poter essere riconosciuti, un giorno, esseri umani. Appena sedicenne, Zaher lascia la famiglia e, con pochissimi risparmi, intraprende un viaggio di circa due anni. Un’avventura che si rivelerà piena di insidie, ma che rappresenta per lui una corsa al diritto di esistere, la speranza di poter vivere da uomo libero, lontano dalla guerra. Il suo taccuino si riempie via via di appunti e poesie raccolte in questa diaspora silenziosa. Brevi versi che raccontano il desiderio di accedere ad una nuova vita, ma anche la paura di essere respinto, di essere trattato come un ladro o un fuorilegge per il reato di clandestinità.
“Giardiniere, apri la porta del giardino; io non sono un ladro di fiori, io stesso sono diventato fiore, non vado in cerca di un fiore qualsiasi. Tra i suoi appunti, poesie classiche e altre più antiche sul tema della nostalgia, dell’amore mistico verso Dio, del dolore per la morte in esilio. Versi imparati a memoria e ripetuti in continuazione, cercando in essi il coraggio per andare avanti e raggiungere così il mare, inseguendo quel sogno, suo e di tanti giovanissimi come lui: l’Europa dei diritti umani. “Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino, ma promettimi, Dio, che non lascerai si spenga questa mi primavera. ” Uscito dall’Iran, Zaher è costretto ad affrontare mille difficoltà e non pochi uomini senza scrupoli. Deve superare posti di blocco, oltrepassare montagne, attraversare campi minati e il deserto, procedendo a piedi perché per un passaggio in auto o in camion le cifre richieste sono altissime. Passa per le terre dei curdi, attraversa la Turchia. Così annota sul suo taccuino: “Questo corpo così assetato e stanco forse non arriverà fino all’acqua del mare. Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino, ma promettimi, Dio, che non lascerai finisca la mia primavera." Ma Zaher ce la fa a vedere il mare e arriva finalmente all’Egeo. Probabilmente a bordo di uno dei tanti gommoni fatiscenti e sovraffollati che spesso non reggono le onde e seminano morte nelle acque, sbarca sull’isola di Lesbo. Fermato a Mitilene e trovato privo di documenti, gli viene notificato un provvedimento di espulsione: trenta giorni per lasciare la Grecia. Senza soldi, dichiara di avere tredici anni, riuscendo così ad essere affidato ad una comunità di accoglienza dalla quale però fugge, percorrendo in una settimana gli oltre seicento chilometri, tra terra e mare, che separano Mitilene da Patrasso. Qui, ancora clandestino, s’imbarca per raggiungere Venezia. “Tanto ho navigato, notte e giorno, sulla barca del tuo amore che riuscirò infine ad amarti o morirò annegato.” Quando la nave attracca al porto di Venezia, egli sa benissimo che i minorenni intercettati sulle navi sempre più spesso vengono rimandati indietro, senza alcuna possibilità di chiedere asilo politico o anche solo di essere informati sui propri diritti. Anche nella sognata “terra dei diritti umani”, infatti, spesso vengono trasgrediti sia il divieto generale di espulsione e respingimento, sia l’obbligo, per la polizia di frontiera, di accogliere comunque la domanda di protezione internazionale sulla quale deve pronunciarsi la competente commissione territoriale. Zaher lega, dunque, il suo corpo a delle assi sotto la pancia di un tir, riuscendo in tal modo ad eludere i controlli alla dogana. Sotto la pioggia, verso mezzanotte, il camion si rimette lentamente in moto e il viaggio verso la salvezza riprende. Ma dopo una manciata di chilometri, non si sa come né perché, il corpo di Zaher viene sbalzato dal pesante mezzo e la sua testa maciullata sotto le ruote. Di lui restano pochi oggetti racchiusi in un sacchetto trasparente: degli animaletti di plastica, in pratica giochi da bambino: una rondine, un leone, una giraffa e un alce; una scheda telefonica, un taccuino senza copertina con testi scritti in persiano antico; numeri di telefono, anche italiani, incompleti; un paio di schizzi da saldatore; le istruzioni su come agganciarsi sotto ad un camion; il foglio di espulsione dalla Grecia. Poche parole, ritrovate nelle sue tasche, racchiudono il suo ultimo sogno. "Se un giorno, in esilio, la morte deciderà di prendersi il mio corpo, chi si occuperà della mia sepoltura, chi cucirà il mio sudario? In un luogo alto sia deposta la mia bara, così che il vento restituisca alla mia Patria il mio profumo." A Zaher e a tutti i bambini e ragazzi in cerca di un sogno, di un giardino migliore, con terra buona in cui piantare le loro radici. Possano trovarlo, un giorno, questi piccoli fiori. Possano incontrare bravi giardinieri che sappiano valorizzare la loro presenza ed un vento capace di espandere nell’aria il loro profumo, per diffonderne, farne conoscere e apprezzare l’essenza.
Daniela Carloni